Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/19

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Se, come i vestimenti,
s’aprisser gli urna» petti,
quanto vi si vedria, che non si crede!

Ché de l’arcane menti

le lingue e i nostri aspetti

certa sempre non fanno e vera fede.

Sallo chi ’l cor mi vede,

s’egli è mio stato acerbo,

e se, come sepulcro,

di fòri ornato e pulcro,

orrenda morte dentro e fetor serbo.

Non tutto oro s’intende

ciò che riluce o splende,

né cosa si conosce al mondo meno

che per la fronte quel ch’abbia altri in seno.

Cosi, lasso! ho temenza
di penar, mentr’ io viva,
senza trovar pietá de’miei martiri:
però che l’apparenza
è d’ogni dolor priva,
pur come vuol chi tempra i miei desiri.
Amor, ch’a ciò mi tiri
(ch’altri non ha tal possa),
mio core, a tutti ignoto,
fa tu palese e noto
a chi prima gli die’ l’aspra percossa ;
ch’a lei desio mostrarlo,
a tutt’altri celarlo

son fermo, ed anco poi eh’ io sia sepulto,
tener l’affanno del mio petto occulto.

O voi d’Amor seguaci,
seguite il mio consiglio:
temperato sia sempre il vostro affetto.

Dir mi potreste: — Taci;
provvedi al tuo periglio,
pria che ti caglia de l’altrui difetto. —

Ma tal laccio m’ha stretto,
che provvidenza umana
non fia mai che ’l discioglia;
e spesso l’altrui doglia