Pagina:I Cairoli delle Marche - La famiglia Cattabeni.djvu/49

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segnò le armi e il denaro, consistente in una cinquantina di piastre d’argento.

Ogni strepito di guerra era cessato. Tutto il paese era tornato in profondo silenzio e nessuno s’avanzava o perchè la colonna non si fidasse, o perchè si volessero radunare e riordinare i reggimenti.

Eravamo in sull’attesa degli avvenimenti quando allo spigolo che fa cantone alla piazza e alla via, apparve prima lo sporgere d’una canna da fucile, poi il giaccò, e di seguito la testa d’un borbonico, che a carabina impostata avanzavasi in atteggiamento d’esplorare; e quantunque quella piazza fosse deserta, trasse un colpo alle invetriate del Vescovato da dove stavamo spiando.

Immantinenti la piazza diventò un campo d’armati accalcati e confusi. Da ogni punto partendo fucilate contro il palazzo in cui stavano ricovrati i feriti, un inserviente, per avviso avutone da Monsignore, legato un lenzuolo a lunga asta, tenendosi nascosto a raso della parete, lo sporse dalla finestra ed agitandola quale insegna di pace, lusingavasi d’abbonacciarli.

Non lo avesse mai fatto! — che all’apparire di quel segno, le palle fischiarono spesse sopra i nostri capi e picchiarono a furia sui nostri tetti.

Fulminando le palle per ogni verso e infuriando i soldati con minacciose grida, fra tanto pericolo e scompiglio, il Vescovo che si sforzava di confortarci con la promessa della sua assistenza svenne.

Grande fu la premura nostra per richiamarlo ai sentimenti ed a rendere maggiore la confusione in che eravamo avviluppati, apparirono (non saprei spiegarmi come e perchè) alcuni militi della Guardia nazionale di Napoli, chiedendo e supplicando salvezza.

I soldati intanto già erano penetrati nel palazzo. Riavutosi alcun poco il Vescovo, appena che gli smarriti sentimenti all’ufficio loro tornarono, presa una croce, si collocò quale baluardo avanti i feriti, di fronte alla porta che separava la stanza occupata da noi dalle altre già invase. I Regi atterrata la porta rovesciano la croce, travolgono il Vescovo e furibondi si slanciano sui feriti.

Un Cacciatore, del sesto reggimento Colonna, inferocito come una iena, gridando in linguaggio napoletano, che da sette mesi dormiva in terra, incalzando col moschetto appuntato di baionetta or l’uno, or l’altro avventava da tutte le parti, rabbiosamente colpi di punta per crudo scempio.

In quell’arduo frangente Giambattista Cattabeni, sia per calmare quel furente, sia per salvare i suoi fidi compagni, gli va incontro senza la minima titubanza ed affrontandone l’ira si prova di placarlo con modi, preghi e i più affettuosi argomenti di fratellanza. Quella belva