Pagina:I Cairoli delle Marche - La famiglia Cattabeni.djvu/50

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selvaggia, allargando la fetida e bavosa bocca, che lo rendeva veramente ributtante, infuriando vieppiù con grida che facevano terrore, lanciavagli di tutta forza colpi di baionetta; ma per quanto badasse a colpirlo di punta non vi riusciva, schermendosene Giovambattista sempre maestrevolmente — e puntando colui bassa la testa, e incalzando più volte, fattosi già il prode Comandante parecchi passi indietro, giunto con le spalle al muro, ad altro colpo scagliatogli restò trafitto profondamente al ventre.

In quello stesso momento un magnanimo Alfiere d’animo elevato a nobili sensi, per nome Giovanni Afan de Rivera, adirato dall’iniquo procedere di quei soldati, entrava a spada nuda minacciandoli per la mancanza del dovuto rispetto ai feriti, e visto non essere possibile frenare tanto impeto ci sollecitava uscire con lui.

Giovambattista, pallido in volto come per morte, parve uomo che avesse ricevuto una percossa fortissima; ed a me che gli ero accanto, parve leggere la vicina morte di questo magnanimo.

In quella disastrosa contingenza due eletti spiriti d’Italia, ivi dovevano incontrarsi — il Generale Brigadiere Matteo Negri al servizio del Re Francesco II, ed il Maggiore Cattabeni promosso in quello stesso giorno a Colonnello da Garibaldi.

Il Negri era giovane e bello — intelligente e coraggioso — in grazia del Re Francesco — e carissimo ai liberali di Napoli — da tutto l’esercito tenuto in gran pregio.

Pochi invero della milizia borbonica sollevavansi alla sfera dei principi suoi, perciò, pochi erano i generosi, e dei pochi il primo.

Mentre seguivamo l’Alfiere Afan de Rivera che voleva trarci a salvamento, il Negri, venutoci incontro, strinse la invitta destra del Colonnello; e datogli braccio per aiutarlo a discendere le scale, non si potendo restare dal palesarsi, lo assicurò a bassa voce, trovarsi a braccio d’amico.

La sua presenza felice, la bellezza dello aspetto, le parole di refrigerio resero meno acerbo lo spasimo delle piaghe e più tolleranda l’avversa sorte.

Quando fummo per uscire dal palazzo vescovile, tutta quella piazza irta di baionette, quell’accalcarsi e confondersi di soldati come turbine, ci faceva renitenti ad affrontare l’ira dei vincitori. Io non so dire l’orrore di quel tumulto, di quell’immenso fragore di tamburri, di trombe, di armi percosse tra loro, di urli, di minaccie, d’imprecazioni, di supplicazioni e singulti, che parevano un pianto solo. Eppure, mostrando dura fronte, ci cimentammo agli insulti e alle minaccie della soldataglia, ai fieri modi d’un esercito che correva in frotta una città vinta, assalendo le case, sfondandone le porte, sbucandovi dentro come