Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 14 - 6 aprile 1912.pdf/5

Da Wikisource.

IL BUON CUORE 109


di tremito nella voce. — Hanno suonato, capisci, — ha proseguito — ’O sole mio! la nostra bella, la nostra cara, la nostra indimenticabile canzone napoletana.

«Io non so descriverti con parole l’impressione profonda che ho provata. A circa due mesi di viaggio dal mio paese, fra una turba innumerevole di gente che mi era estranea per sentimenti, per usanze, per fede, io con qualche altro italiano, ma io solo, capisci, io solo napoletano, nel sentire la voce della mia città esprimersi sotto un cielo luminoso come il suo, ma tanto, tanto lontano; nel sentire la bella melodia grata al mio orecchio e dolce al mio cuore, ho pianto come un fanciullo, senza ritegno, perchè altri piangevano con me, ma diversa era la causa del loro pianto.

«Io rievocavo le parole di cui solo potevo intendere, fra tutto un popolo, il significato e la poesia e lasciavo scorrere le lacrime, le quali non erano amare di nostalgia, no, ma erano piene di dolcezza, ed erano balsamo al mio cuore di napoletano sbalzato, per le esigenze della vita, in una terra tanto lontana. Erano lacrime, non ti sembri esagerato ciò che ti dico, di vera soddisfazione e di fierezza. Io ero fiero, è la parola, di vedere un popolo dissimile dal nostro perfino nel colorito della sua epidermide, prostrarsi e commuoversi ad una melodia nostra, ad una canzone napoletana, come ero fiero che la canzone, che è la espressione più gentile di nostra gente ed è la voce della città nostra, avesse valicato i monti e superato i mari per soggiogare un popolo semplice ed esuberante dal quale tutte le nostre arti più belle trassero origine.

«E da quel giorno il pensiero della mia Napoli non mi si è tolto più di mente, suscitandomi nell’anima un nostalgico desiderio di rivederla».

Ecco perchè la mia sensazione, all’udire le parole dell’artista, non era del tutto infondata. E’ impossibile immaginare che cosa sia per un napoletano la sua canzone udita lontano dalla città che ne produce infaticabilmente. E’ il richiamo che supera ogni altro, è la voce della città che si manifesta, con lusinghe amorevoli, con tenerezze materne. A Londra o a Pechino ’O sole mio o Duorme Carmè, rievocheranno, in ogni circostanza, le più caratteristiche espressioni della passionalità napoletana, rievocheranno il paesaggio incantevole, il golfo luminoso, il Vesuvio, rievocheranno Napoli o parrà da questo esser chiamati con lusinghevoli blandizie come da una sirena incantatrice.

Ed è bello che Napoli; fra tutte le città, abbia nella canzone la sua voce che non conosce confini, la sua voce che ci raggiunge lontano, che ci rianima, che ci esalta, che parla, con la sua musica, al cuore di popoli stranieri e li induce al pianto o alla gioia.

La notte era scesa sul mare quando Fortunino, un po’ triste, mi disse:

— E se questa voce un giorno dovesse spegnersi?

Ma il mio vecchio amico aveva appena manifestato questo tormento, che una voce, una sottile voce che partiva da una finestra aperta sul golfo, quasi a rispondere alla sua domanda, si pose a cantare il ritornello di una canzone nuovissima, che entrambi udivamo per la prima volta:

E basta sulamente ’o mandulino
pe canta ’e ttrezze belle e ll’uocchie doce
n’aria ’e ciardino
un filo e’ voce
stu core nuosto
ca, ride o chiagne, vo’ sempre cantà.

Ed entrambi soddisfatti, udimmo il canto che si perdeva lontano e dicemmo a noi stessi che la voce di Napoli non si spegnerà mai.

Pasquale Parisi.

LE SUORE A DERNA


Un collaboratore della Stampa manda da Derna al suo giornale quanto segue:

Le monache, che da anni sono qui, dove hanno aperte delle scuole, dove da anni esercitano il loro apostolato di carità e di fede, guadagnandosi la riconoscenza, l’affetto e la simpatia degli abitanti da loro beneficati, dopo una breve assenza da Derna, al principio della campagna, assenza, alla quale furono costrette dai pericoli della guerra e dalla incertezza delle sorti della città, sono da tre mesi tornate alla loro casa, nel centro del paese, dove hanno ripreso, con maggiore zelo il loro ministero di pietà.

È già noto come allo scoppiare delle ostilità, esse, a malgrado delle promesse di protezione, fossero dal Bimbasci turco, imprigionate, insieme ad altri italiani, in una casa, in riva al mare, e custodite severamente. È anchè noto come esse furono liberate dall’intervento pronto ed energico di alcune nostre navi da guerra. La salvezza la dovettero alla devozione di Alì, un loro giovane servo arabo, affezionato e fedele. Imprigionato insieme con loro, Alì potè evadere audacemente dalla prigione, e, con una marcia celere e forzata di due giorni portarsi a Tobruk, dove al comandante la squadra, colà ancorata, potè riferire della prigionia degli italiani. Furono inviati sollecitamente soccorsi, e le navi da guerra di fronte a Derna intimarono la consegna immediata dei prigionieri, minacciando il bombardamento della città. La scarcerazione avvenne subito, e gli italiani detenuti furono accolti con gioia dalle navi e trasportati altrove.

Ma sbarcato il 22° fucilieri, al comando del colonnello Zuppelli, a Derna, occupata stabilmente la città, ed eseguiti i primi trinceramenti sull’altipiano, le monache vollero tornare al loro posto ed al loro ministero, e Derna accolse festosamente il piccolo stuolo capitanato dalla dolce suor Maria Teresa. Esse cooperarono efficacemente al buon funzionamento di un ambulatorio sanitario, aperto per gli indigeni, dagli ufficiali medici, e diretto dal, valente chirurgo capitano Verando; esse ripresero le loro funzioni di maestre dei piccoli arabi; esse si improvvisarono infermiere attente e premurose dei soldati ammalati, esse furono le sorelle affettuose dei soldati feriti nei vari combattimenti, e i soldati ora si inchinano al passaggio delle suore e loro sorridono con espressione di gratitudine.