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IL BUON CUORE 211


bile, motivata dalle calunnie e maneggi delle Logge, e che, la Dio merce, si risolse a danno dei denigratori.

A Libollo, anche peggio; fummo espulsi due volte e ci si tolsero i beni. Tutti i bambini e le famiglie fuggirono, ed i poveri Missionari, privi di tutto, furono dispersi, e si rifugiarono presso i negri dei dintorni, per mesi interi.

A Loanda esisteva uno splendido educandato femminile diretto dalle Suore di S. Giuseppe di Cluny, ed in un quartiere povero della città un numeroso esternato, che prometteva la rigenerazione di quei poveri disgraziati.

Il Governatore proibì dapprima alle Suore di indossare l’abito religioso, ed in seguito le espulse, del pari che le Francescane addette all’ospedale ed ai presidi dei deportati.

Ci troviamo alla vigilia di un male ancor più grande, cioè l’applicazione della legge del Registro Civile, che proibisce il battezzare prima di aver fatto denunzia al Registro Civile. Speriamo in Dio, il quale ci darà la vittoria. Preghiamo, frattanto, e facciamo pregare».

(Corrispondenza Africana).


Mons. VENANZIO MERONI

Lo rivediamo nelle diverse epoche, sotto i suoi vari aspetti, tutti simpatici, e non sappiamo persuaderci della dolorosa realtà, della sua scomparsa quasi repentina.

Un anno è trascorso dalla sua Messa d’oro, che, malgrado lo spirito di Lui rifuggente dagli onori, fu solennizzata da molti cuori affezionati. Noi ricordiamo con soddisfazione l’amichevole tradimento fattogli al suo prediletto Asilo per l’Infanzia — Orlando Cantù — ove fu attirato come in un tranello a ricevere omaggi, doni, felicitazioni e auguri da signore e signori, da adulti e bambini che lo veneravano. Ricordiamo le sante parole da Lui pronunciate quel giorno, e ricordiamo pure le patriottiche parole ch’Egli, più tardi, nel medesimo luogo, pronunciava come a commento degli inni che i bambini, sventolando il tricolore, eseguivano con entusiasmo in onore dei nostri soldati combattenti in Libia. Egli, colla sua caratteristica dolcezza, dopo aver espresso il suo convincimento intorno all’alta finalità della guerra — guerra della civiltà contro la barbarie, della Croce contro la Mezzaluna — fece voti per la pace, una pace gloriosa, all’altezza delle vittorie delle armi italiane.

Povero e caro Don Venanzio!

Contava 74 anni. Nato nel 1838 a Erba, studiò nei nostri seminari archidiocesani, ed ebbe la ventura di essere scolaro di don Adalberto Catena, di don Carlo Testa e di altri distintissimi sacerdoti formanti quel drappello caratteristico dell’epopea italiana.

Ordinato sacerdote, don Venanzio rimase nel suo diletto, ridente paese nativo, ove coperse parecchio tempo importanti cariche pubbliche. Come assessore e consigliere comunale, promosse il bene del comune, e pa-
recchi anni or sono, senza riuscire, tentò più volte di combinare la fusione dei due villaggi ormai indistinti, Erba e Incino. Il tempo diede ragione a don Venanzio: infatti sono appena trascorsi due anni dacchè fu compreso il progetto previdente della fusione, e il voto del venerato sacerdote si effettuava mentr’Egli era a Milano col pensiero sempre rivolto al paese che gli aveva dato i natali.

La vicinanza di Erba e Lezza aveva fatto di Catena Meroni — l’antico maestro e l’antico scolaro — due amici. Si comprende però come don Meroni guardasse a don Catena con sentimento di ammirazione; ed era un’ammirazione sincera, candida, tranquilla, benchè entusiasta; era l’ammirazione di un cuore umile e di una mente distinta, ma capace nella sua distinzione di uscire libera da se stessa e di lasciarsi illuminare dai raggi di un pianeta superiore.

Nel 1891 don Catena chiamò a Milano don Venanzio gli affidò l’assistenza dell’Oratorio nella parrocchia di S. Fedele. Circa dieci anni dopo il modesto sacerdote veniva innalzato all’ufficio di Canonico della Perinsigne Basilica di S. Ambrogio; ma Egli, per i suoi colleghi, per i giovani dell’Oratorio, per tutti, rimase sempre e solo don Venanzio, nome che esprimeva tutto un poema di amore e di venerazione.

Modestia, dolcezza e bontà erano le sue note caratteristiche. Al primo tentativo di accenno alle sue promozioni, al titolo di Monsignore, a’ suoi lavori, s’impennava con una schiettezza che non ammetteva replica. Benchè colto, dotato di squisito gusto letterario e di giusto discernimento, non ammetteva nulla in se stesso trovava tutto buono ed elevato negli altri. Egli dissimulava persin volentieri la sua erudizione, e richiesto del suo giudizio intorno ad opere o ad autori, lo dava con dolce spontaneità, con franchezza, senza adulare mai, schivando sempre la critica mordace. Possiamo e dobbiamo anche dire che ogni incontro con Lui fu per noi un conforto e un incoraggiamento.

Un caro nostro amico sacerdote così ci ha espresso il suo rimpianto:

«In quindici anni, non l’ho mai veduto adirarsi o impermalirsi; non ho scorto sul suo viso una sola ruga che fosse per corruccio, od un solo sorriso che fosse di sarcasmo o di disprezzo. Dalle sue labbra non ho udito mai alcuna parola che suonasse sdegno o recriminazione. Era sempre sereno, sempre condiscendente, pronto a tutte le sostituzioni, non solo alle più umili, ma pure alle più gravose e non simpatiche. Ad ogni favore che prestava, sapeva dar l’aria di una grazia ricevuta, e sempre rendeva omaggio alle fatiche dei colleghi, quasichè Egli oziasse, mentre, pur nei tardi anni, era sospinto da non comune zelo e si mostrava avido di sapere più di molti giovani».

Don Venanzio pubblicò memorie apprezzatissime sulla Pieve d’Incino, nè il còmpito suo era esaurito: altre memorie già pronte per la stampa, aspettano nel suo scrittoio che qualche suo compaesano sappia utilizzarle.

Sempre gracile di salute, l’ottimo nostro don Venanzio ebbe in questi ultimi tempi seri attacchi. Chi lo