Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/50

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Or questo fime è il zolfo, e la miniera,
Che con quel blando e sì gentile ardore,
In lei di ben fruttar le voglie desta.
Se non che rare, mi dirai, le torri
S’alzan qui ’ntorno, ove ’l colombo annidi,
Perchè più saporite ama pasture,
E però raro è ’l suo escremento ancora,
Nè mai senza miracolo può farsi
Moltiplicar ciò che in se stesso è scarso.
Questa penuria, e questo sì lontano
E difficil tragitto è quel, che raro,
E in un di prezzo rigoroso il rende.
Io non vo’ però già, che disperato,
Dal coltivar la canape t’astenga:
Vedesti mai tu ’l medico a l’infermo
Tal medicina famigliar proporre,
Nota, e che nasce ne’ tuoi stessi campi,
Quando l’oltremarina aver non puossi,
E che di quella al par l’infermo sani?
In questa carestia fa tu lo stesso,
E un somigliante effetto ne vedrai.
Se colombina tu non hai, rivolgi
L’animo a le polline: e qual v’ha tetto,
(E sia pur di città, sia pur di villa)
Che pollajo non abbia, e non vi nutra
Galli, galline, gallinacci, ed oche,
E l’anitre, e la chioccia, e ogni altro pollo?
Allor, che s’accovacciano nel nido,
E s’appollajan per le lunghe notti,
(Che per lor si fa notte innanzi sera)
Allor si digerisce, e si prepara
Il nutrimento de la tua cultura.
Questo, adusto che sia, e in polver fatto,