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108 | il vicario di wakefield. |
quanto vano sarebbe stato lo spingerle più oltre, deliberai di ritornare all’innocente mia famiglia a cui era la mia assistenza necessaria. Ma lo scompiglio dell’animo e le sostenute fatiche mi cagionarono una febbre della quale prima d’uscire dal circo mi vennero sentiti tutti i sintomi; e non fu poca sventura questa piombatami addosso per la non pensata, essendo che io era lungi di casa mia più di settanta miglia. Mi ritrassi in una piccola osteria posta sulla strada; e in quel meschino tugurio, usato ricovero della frugale povertà, mi posi in letto pazientemente aspettando la fine della mia malattia, ed ivi languii per quasi tre settimane: ma in ultimo prevalse la mia complessione alquanto robusta. Il non aver in meco danari per pagare l’oste dopo tanti giorni di dimora, mi tormentava d’angoscia; e quella era forse bastevole a ritardare la mia guarigione, e mi avrebbe anche procacciata una ricaduta, se non fosse capitato in mio soccorso un viandante fermatosi all’osteria per prendere poco rinfrescamento. Costui era quel libraio pieno di filantropia il quale abita a Londra nel sagrato di San Paolo, e che scrisse tanti opuscoli pe’ fanciulli intitolandosi il loro amico, ma mostrandosi in fatti poi l’amico di tutto il genere umano. Pochi minuti dopo essere smontato, ei volea ripartire in fretta in fretta, come quegli che avea sempre per le mani faccende di somma importanza, e il quale allora appunto era occupatissimo in compilare materiali per la storia di un certo Tommaso Trip. Riconobbi tosto la faccia rossa e bitorzolata di quell’onest’uomo, perchè aveva io per mezzo di lui pubblicate le mie operette contro la deuterogamia del secolo: però a lui mi volsi, e mi feci prestare alcune lire che io gli avrei restituite appena tornato a casa mia.
Sentendomi tuttavia infievolito d’alquanto, nell’abbandonare l’osteria formai pensiero di compiere il mio viaggio a piccole giornate di dieci miglia cadauna. Ricuperata quasi la mia salute e la solita pace dell’anima, io