Pagina:Iliade (Monti).djvu/120

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v.116 libro quinto 109

Con fragor le speranze e le fatiche
De’ gagliardi coloni: a questa guisa
Sgominava il Tidíde e dissipava
Le caterve de’ Troi, che sostenerne
Non potean, benchè molti, la ruina.120
   Come Pandaro il vide sì furente
Scorrere il campo, e tutte a sè dinanzi
Scompigliar le falangi, alla sua mira
Curvò subito l’arco, e l’irruente
Eroe percosse alla diritta spalla.125
Entrò pel cavo dell’usbergo il crudo
Strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio,
Forte allora gridò l’inclito figlio
Di Licaon, magnanimi Troiani,
Stimolate i cavalli, ritornate130
Alla pugna. Ferito è degli Achei
Il più forte guerriero, né credo ei possa
A lungo tollerar l’acerbo colpo,
Se vano feritor non mi sospinse
Qua dalla Licia il re dell’arco Apollo.135
   Così gridava il vantator. Ma domo
Non restò da quel colpo Dïomede,
Che ritraendo il passo, e de’ cavalli
Coprendosi e del cocchio, al suo fedele
Capaneíde si rivolse, e disse:140
Corri, Sténelo mio, scendi dal carro,
E dall’omero tosto mi divelli
Questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra
Sténelo e corse, e l’aspro stral gli svelse
Dall’omero trafitto. Per la maglia145
Dell’usbergo spicciava il caldo sangue,
E imperturbato sì l’eroe pregava:
   Invitta figlia dell’Egíoco Giove,
Se nelle ardenti pugne unqua a me fosti