Pagina:Iliade (Monti).djvu/123

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
112 iliade v.218

Videlo Enea, si mosse, e per la folta
E fra il rombo dell’aste discorrendo
A cercar diessi il valoroso e chiaro220
Figlio di Licaon, Pandaro. Il trova,
Gli si appresenta e fa queste parole:
   Pandaro, dov’è l’arco? ove i veloci
Tuoi strali? ov’è la gloria in che qui nullo
Teco gareggia, nè verun si vanta225
Licio arcier superarti? Or su, ti sveglia,
Alza a Giove la mano, un dardo allenta
Contro costui, qualunque ei sia, che desta
Cotanta strage, e sì malmena i Teucri,
De’ quai già molti e forti a giacer pose:230
Se pur egli non fosse un qualche nume
Adirato con noi per obblïati
Sacrifizi: e de’ numi acerba è l’ira.
   Così d’Anchise il figlio. E il figlio a lui
Di Licaone: O delle teucre genti235
Inclito duce Enea, se quello scudo
E quell’elmo a tre coni e quei destrieri
Ben riconosco, colui parmi in tutto
Il forte Dïomede. E nondimeno
Negar non l’oso un immortal. Ma s’egli240
È il mortale ch’io dico, il bellicoso
Figliuolo di Tidéo, tanto furore
Non è senza il favor d’un qualche iddio,
Che di nebbia i celesti omeri avvolto
Stagli al fianco, e dal petto gli disvía245
Le veloci saette. Io gli scagliai
Dianzi un dardo, e lo colsi alla diritta
Spalla nel cavo del torace, e certo
D’averlo mi credea sospinto a Pluto.
Pur non lo spensi: e irato quindi io temo250
Qualche nume. Non ho su cui salire