Pagina:Iliade (Monti).djvu/183

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172 iliade v.216

Sollevava le palme; e con gli sguardi
Fissi nel cielo udíasi dire: o Giove,
Fa che la sorte il Telamónio Aiace
Nomi, o il Tidíde, o di Micene il sire.
   Così pregava; e il cavalier Nestorre220
Agitava le sorti: ed ecco uscirne
Quella che tutti desïâr. La prese,
E a dritta e a manca ai prenci achivi in giro
La mostrava l’araldo, e nullo ancora
La conoscea per sua. Ma come, andando225
Dall’uno all’altro, il banditor pervenne
Al Telamónio Aiace e gliela porse,
Riconobbe l’eroe lieto il suo segno,
E gittatolo in mezzo, Amici, è mia,
Gridò, la sorte, e ne gioisce il core,230
Che su l’illustre Ettór spera la palma.
Voi, mentre l’armi io vesto, al sommo Giove
Supplicate in silenzio, onde non sia
Dai teucri orecchi il vostro prego udito;
O supplicate ad alta voce ancora,235
Se sì vi piace, chè nessuno io temo,
Nè guerriero v’avrà che mio malgrado
Di me trionfi, nè per fallo mio.
Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero,
La marzïal palestra in Salamina,240
Nè il chiaro sangue di che nato io sono.
   Disse; e gli Achivi alzâr gli sguardi al cielo,
E a Giove supplicâr con questi accenti:
Saturnio padre, che dall’Ida imperi
Massimo, augusto! vincitor deh rendi245
E glorïoso Aiace; o se pur anco
T’è caro Ettorre e lo proteggi, almeno
Forza ad entrambi e gloria ugual concedi.
Di splendid’armi frettoloso intanto