Pagina:Iliade (Monti).djvu/350

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v.526 libro decimoterzo 17

Veloce delibò nel suo trascorso
Lo scudo, e secco risonar lo fece.
Nè indarno uscì dalla man forte il telo,
Ma l’Ippaside Ipsénore percosse
Sotto i precordi, e l’atterrò. Gran vanto530
Si diè sul morto l’uccisor, gridando:
Asio non giace inulto, e alle tremende
Porte scendendo di Pluton mi spero
Fia del compagno, ch’io gli do, contento.
   Contristò degli Achei quel vanto i petti,535
D’Antíloco su gli altri il bellicoso
Cor ne fu tocco; nè lasciò per questo
In abbandon l’amico, anzi accorrendo
Lo coprì dello scudo, e lo protesse
Sì che Alastorre e Mecistéo, due cari540
Dall’estinto compagni, in su le spalle
Recarselo potero ed alle navi
Trasportarlo, mettendo alti lamenti.
   Non rallentava Idomenéo frattanto
Il magnanimo core, e vie più sempre545
L’infiammava la brama o di coprire
Qualche Troiano dell’eterna notte,
O far di sua caduta egli medesmo
Risonante il terren, sol che de’ Greci
Allontani l’eccidio. Era fra’ Teucri550
Un caro figlio d’Esïéta, il prode
Alcatóo, già consorte alla maggiore
Delle figlie d’Anchise Ippodamía,
Che al genitor carissima e alla madre
Onoranda matrona, ogni compagna555
Vincea di volto e di prudenza, esperta
In tutte l’arti di Minerva; ond’ella
D’un de’ più chiari fra gli eroi fu sposa
Di quanti Ilio n’avea nel suo gran seno.

Iliade, Vol. II 2