Pagina:Iliade (Monti).djvu/428

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v.320 libro decimosesto 95

Gli avea riposto nella nave e colmo320
Di tuniche e di clamidi del vento
Riparatrici, e di vellosi strati.
Quivi una tazza in serbo egli tenea
Di pregiato artificio, a cui null’altro
Labbro mai non attinse il rubicondo325
Umor del tralcio, e fuor che a Giove, ei stesso
Non libava con questa ad altro iddio.
Fuor la trasse dell’arca, e con lo zolfo
La purgò primamente: indi alla schietta
Corrente la lavò. Lavossi ei pure330
Le mani, e il vino rosseggiante attinse.
Ritto poscia nel mezzo al suo recinto
Libando, e gli occhi sollevando al cielo,
A Giove, che il vedea, fe’ questo prego:
   Dio che lungi fra’ tuoni hai posto il trono,335
Giove Pelasgo, regnator dell’alta
Agghiacciata Dodona, ove gli austeri
Selli che han l’are a te sacrate in cura,
D’ogni lavacro schivi al fianco letto
Fan del nudo terreno, i voti miei340
Già tu benigno un’altra volta udisti,
E dalle piaghe degli Achei vendetta
Dell’onor mio prendesti. Or tu pur questa
Fïata, o padre, le mie preci adempi.
Io qui fermo mi resto appo le navi;345
Ma in mia vece alla pugna ecco spedisco
Con molti prodi il mio diletto amico.
Deh vittoria gl’invía, tonante Iddio,
L’ardir gli afforza in petto, onde s’avvegga
Ettore se pugnar sappia pur solo350
Il mio compagno, o allor soltanto invitta
La sua destra infierir, quando al tremendo
Lavor di Marte lo conduce Achille.