Pagina:Iliade (Monti).djvu/521

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188 iliade v.286

Oh mio Patróclo! oh caro e dolce amico
D’una meschina! Io ti lasciai qui vivo
Partendo; e ahi quale al mio tornar ti trovo!
Ahi come viemmi un mal su l’altro! Vidi
L’uomo a cui diermi i genitor, trafitto290
Dinanzi alla città, vidi d’acerba
Morte rapiti tre fratei diletti;
E quando Achille il mio consorte uccise
E di Minete la città distrusse,
Tu mi vietavi il piangere, e d’Achille295
Farmi sposa dicevi, e a Ftia condurmi
Tu stesso, e m’apprestar fra’ Mirmidóni
Il nuzïal banchetto. Avrai tu dunque,
O sempre mite eroe, sempre il mio pianto.
   Così piange: piangean l’altre donzelle300
Pátroclo in vista, e il proprio danno in core.
   Stretti intanto ad Achille i senïori
Lo confortano al cibo, ed egli il niega
Gemebondo: Se restami un amico
Che mi compiaccia, non m’esorti, il prego,305
A toccar cibo in tanto duol: vo’ starmi
Fino a sera, e potrollo, in questo stato.
   Tutti, ciò detto, accomiatò, ma seco
Restâr gli Atridi e Nestore ed Ulisse
E il re cretese e il buon Fenice, intenti310
A stornarne il dolor: ma il cor sta chiuso
Ad ogni dolce finchè l’apra il grido
Della battaglia sanguinosa. Or tutto
Col pensier nell’amico alto sospira
E prorompe così: Caro infelice!315
Tu pur ne’ giorni di feral conflitto
Degli Achivi co’ Troi m’apparecchiavi
Con presta cura nelle tende il cibo.
Or tu giaci, e digiuno io qui mi struggo