Pagina:Iliade (Monti).djvu/522

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v.320 libro decimonono 189

Del desío di te sol; nè più cordoglio320
Mi gravería se morto il padre udissi
(Misero! ei forse or per me piange in Ftia,
Per me fatto campione in stranio lido
Dell’abborrita Argiva), o morto il mio
Di divina beltà figlio diletto,325
Che a me si edúca, se pur vive, in Sciro.
Ahi! mi sperava di morir qui solo;
Sperava che tu salvo a Ftia tornando
Su presta nave, un dì da Sciro avresti
Teco addutto il mio Pirro, e mostri a lui330
I miei campi, i miei servi e l’alta reggia;
Perocchè temo che Peléo pur troppo
O più non viva, o di dolor sol viva,
Aspettando ogni dì veglio cadente
L’amaro annunzio della morte mia.335
   Così geme: gemean gli astanti eroi
Ricordando ciascun gli abbandonati
Suoi cari pegni. Di quel pianto Giove
Impietosito, a Pallade si volse
Immantinente, e sì le disse: O figlia,340
Perchè lasci l’uom prode in abbandono?
Pensier d’Achille non hai più? Nol vedi
Là seduto alle navi e lagrimoso
Pel caro amico? Andâr già tutti al desco;
Ei sol ricusa ogni ristor. Va dunque,345
E dolce ambrosia e néttare nel petto,
Onde non caggia di languor, gl’instilla.
   Sprone aggiunse quel cenno alla già pronta
Minerva che d’un salto, con la foga
Delle vaste ali di stridente nibbio,350
Calò dal cielo, e néttare ed ambrosia
Stillò d’Achille in petto, onde le forze