Pagina:Iliade (Monti).djvu/541

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208 iliade v.493

D’Elice è tratto da garzon robusti,
E ne gode Nettunno: a questa guisa
Muggía quell’alma feroce, e spirava.495
   S’avventò dopo questi a Polidoro.
Era costui di Príamo un figlio: il padre
Gli avea difeso di pugnar, siccome
Il minor de’ suoi nati e il più diletto,
Che tutti al corso li vincea. Di questa500
Sua virtute di piè con fanciullesca
Demenza vanitoso egli tra’ primi
Combattenti correa senza consiglio,
Finchè morto vi cadde. Il colse a tergo
In quei trascorsi Achille ove la cinta505
Dall’auree fibbie s’annodava, e doppio
Scontravasi l’usbergo. Il telo acuto
Rïuscì di rimpetto all’ombilico:
Ululò quel trafitto, e su i ginocchi
Cascò: curvato colla man compresse510
Le intestina, e mortal nube lo cinse.
   Come in quell’atto miserando il vide
Il suo germano Ettorre, una profonda
Nube di duolo gl’ingombrò le luci,
Nè gli sofferse il cor di più ristarsi515
Dentro la turba; ma crollando immensa
Una lancia, volò contro il Pelíde
Come fiamma ondeggiante. A quella vista
Saltò di gioia Achille, e baldanzoso,
Ecco l’uom, disse, che nel cor m’aperse520
Sì gran piaga, colui che il mio m’uccise
Caro compagno: or più non fuggiremo
L’un l’altro a lungo pei sentier di guerra.
Disse, e al divino Ettór bieco guatando,
Gridò: T’accosta, chè al tuo fin se’ giunto.525
   Non pensar, gli rispose imperturbato