Pagina:Infessura - Diario della città di Roma.djvu/19

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prefazione xvii

per lo Studio capita il nome di lui non infrequente, e vi s’incontra compagno con quello di Mario Salomonio e di colui che esso e i contemporanei chiamarono «messer Pomponio» e che fu il grande Pomponio Leto. Se non che, in mezzo alla coltura del rinascimento Stefano vive come un uomo del medio evo. Sa di giure, e, seppur ne scrive un libro De comuniter accidentibus, che già si conservò manoscritto nella biblioteca del cardinale Slusio e scomparve con questa1, ei si ravvoltola tutto nell’esercizio della sua pratica. L’onda classica lo lambisce ma non lo vivifica; l’accademia gl’inocula, come un pregiudizio di più, la trista passione dei distici messi a servigio dei pettegolezzi e dell’odio; ma il latino di lui non è mai quel del Valla, bensì quello che si travolgeva in curia al gergo dei cerimonieri; quello, a un dipresso, dell’autore delle Gesta Benedicti XIII2 dove le «matelacia», le «scutellae sive piati», le «taxeae», i «picherii» invadono, colle necessità barbariche del linguaggio vivo, la rigida e pulita immobilità della lingua morta. Così Stefano scrive «pro bono foro» per «a buon mercato»; «in capite quinque dierum» ed «erexit se in pedes» per «a capo di cinque giorni» e «si levò in piedi»; e poi «magazena», «fumarii», «fortelicia», «barilia», «botiglios », «butiglionem», «petias drappi imbroccati», «artellaria», «tendae et padigliones», «partisciana», «sotolare». Che distanza da questo latino a quel del Biondo, di Poggio e del Valla! Nè del resto i contatti

  1. Cf. Catalog. bibl. Slusianae, Romae 1690; Blume, Iter ital., 197; Mabillon, Iter ital. p. 96.
  2. Muratori, Rer. It. Scr. III, 777 sgg.