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464 | illustri italiani |
il cronista Bennone, tutta la storia la mostra innamorata non del papa ma del papato, cui restò fedele per sei pontificati successivi.
Nel castello di Canossa, che a mezzogiorno di Reggio sorge inespugnabile fra gli squallidi valloni dell’Appennino, sede allora di tanta civiltà, or rovina deserta e quasi ignorata, ricoverò Gregorio presso Matilde, quando temette che il favore dei Lombardi non tornasse l’ira allo sbaldanzito Enrico IV: ma questi interpose essa Matilde sua parente, Adelaide di Susa, il marchese guelfo Azzo, ed altri primati d’Italia per essere assolto d’una scomunica, che lo esponeva a perdere anche la corona.
Di segnalati delitti voleva il papa segnalata la riparazione, sgomento ai baldanzosi, soddisfazione ai deboli che l’aveano invocata. Esigette pertanto venisse a lui in abito di penitenza (1077), consegnandogli la corona come indegno di portarla; ed Enrico, deposte le regie vesti e i calzari e coll’abito consueto ai penitenti, potè entrare nella seconda cerchia del castello, per ivi attendere la decisione. Intanto le celle del castello erano occupate dai vescovi di Germania, venuti a penitenza e trattati a pane e acqua; i signori lombardi stavano attendati nelle vallee circostanti. Poichè tre giorni l’ebbe lasciato all’intemperie, Gregorio ammise Enrico al suo cospetto e l’assolse (18 maggio), patto si presentasse all’assemblea de’ principi tedeschi, sommettendosi alla decisione del papa qual ella si fosse; frattanto non godesse nè le insegne nè le entrate nè l’autorità di re1. Promesso, dati mallevadori, Gregorio prese l’ostia consacrata, e appellando al giudizio di Dio se mai fosse reo d’alcuno degli appostigli misfatti, ne inghiottì una metà, e porse l’altra ad Enrico perchè facesse altrettanto se si sentiva innocente. Potere della co-
- ↑ Gregorio raccontando ciò tutto ai Tedeschi, quasi si scusa dell’indulgenza usata a sì gran malfattore: — Dopo forti rimproveri de’ suoi eccessi, venne con debole scorta a Canossa, come chi non pensi a male. Quivi rimase tre dì innanzi la porta, in uno stato da mettere pietà, spoglio del regio apparato, scalzo, vestito di lana, invocando con lacrime il soccorso e il conforto dell’apostolica commiserazione; tanto che tutte le persone presenti o che ne udirono parlare, furono tocche di compassione, e intercessero presso di noi meravigliati dell’inudita asprezza del nostro cuore. Alcuni esclamarono non essere apostolica severità, ma durezza di fiero tiranno; onde alfine lasciatici piegare del suo pentimento e dalle suppliche di tutti i presenti, rompemmo il laccio dell’anatema, ricevendolo nella comunione della santa madre Chiesa». Ep. IV, 12.