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118 viaggio al centro della terra


«Perchè sono essi, ripetei; e qual altri mai potrebbe trovarsi a trenta leghe sotterra?»

Mi rifeci ad ascoltare, ed appoggiando qua e là l’orecchio alle pareti, trovai un punto matematico dove le voci parevano raggiungere la massima intensità. Udii ancora la parola förlorad e poi quel rullo di tuono che m’avea tratto dal mio torpore.

«No, diss’io, non è già traverso la parete di granito . che le voci si fanno udire, poich’essa non permetterebbe alla più forte detonazione di attraversarla. Questo rumore giunge dalla galleria stessa! Conviene che qui vi sia un effetto d’acustica del tutto speciale. Ascoltai di nuovo e questa volta, sì, questa volta udii distintamente il mio nome attraverso lo spazio. Era mio zio che lo pronunziava; egli parlava colla guida, e la parola förlorad era danese.

Allora compresi tutto. Per farmi udire bisognava parlare precisamente lungo la muraglia, la quale doveva servire a condurre la mia voce, come il filo conduce l’elettricità. Ma non avevo tempo da perdere; per poco che i miei compagni si fossero allontanati di qualche passo, il fenomeno acustico sarebbe stato distrutto.

Mi accostai dunque alla muraglia e pronunciai queste parole, più nettamente che mi fu possibile:

«Zio Lidenbrock!»

Aspettai con vivissima ansietà. Il suono non è molto rapido e la densità degli strati d’aria non ne accresce punto la velocità; solo l’intensità ne è aumentata. Passarono alcuni secondi che mi parvero secoli; alla fine mi giunsero all’orecchio queste parole:

«Axel, Axel, sei tu?»

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«Sì, sì,» rispos’io.

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«Fanciullo mio, dove sei?»

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«Perduto nella più profonda oscurità.»

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«Ma la tua lampada?»

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«Spenta.»

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«Ed il ruscello?»

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