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182 viaggio al centro della terra

— Riparare le nostre forze mangiando.»

A tali parole io guardai mio zio con occhio smarrito; ciò che non avevo voluto confessare mi bisognava dirlo.

«Mangiare? ripetei; — Sì, senza indugio.»

Il professore aggiunse qualche parola in danese; Hans tentennò il capo.

«Come, esclamò mio zio, i nostri viveri sono perduti?

— Sì; ecco ciò che ne rimane di viveri: un pezzo di carne secca in tre!»

Mio zio mi guardava senza voler comprendere le mie parole.

«Ebbene, dissi, credete che possiamo ancora essere salvati?»

La mia dimanda non ottenne risposta.

Passò un’ora ed incominciavo a provare una fame violenta, i miei compagni soffrivano anch’essi, e nessuno di noi osava toccare quel miserabile resto d’alimento.

Intanto salivamo sempre con estrema rapidità; alle volte l’aria ci toglieva il respiro come agli areonauti la cui ascensione è troppo rapida. Ma se costoro provano un freddo proporzionale a misura che si sollevano negli strati atmosferici, noi subivamo un effetto assolutamente contrario. Il calore cresceva in maniera inquietante, e doveva certamente toccare allora i quaranta gradi.

Che cosa significava tale mutamento?

Fin qui i fatti avevano dato ragione alle teoriche di Davy e di Lidenbrock; fin qui condizioni particolari di roccie refrattarie, d’elettricità, di magnetismo, avevano modificato le leggi generali della natura, creando una temperatura moderata, perocchè la teorica del fuoco centrale rimaneva ai miei occhi la sola vera, la sola esplicabile.

Ritornavamo noi dunque in un mezzo dove tali fenomeni si compivano in tutto il loro rigore e in cui il calore riduceva le roccie ad un perfetto stato di fusione?

Così temevo e lo dissi al professore.

«Se non siamo annegati o frantumati e se non moriamo di fame, ci rimane sempre la speranza di essere arsi vivi.»

Egli si accontentò di stringersi nelle spalle e ricadde nelle sue riflessioni.

Trascorse un’ora e tranne un leggiero accrescimento