Pagina:La desinenza in A.djvu/221

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ghirlandato di èllera... e quel camposanto in pien sole, ingarbugliamento di crosi e di rose come la vita, in cui fra la turba dal color schiamazzante donde il sonno si stilla e il nereggiar delle more che sanguinano zùcchero e il biancheggio dei gelsomini acutamente odorosi, è un continuo annaspare di cavolaje e libèllule, spilli e cénere alata, è un fervere dagli avelli d’aurei sciami di api, è un baciottarsi, in mezzo ai cespugli, di pàsseri. ¡O poveretta! spranghe di ferro già ti contèndon la fuga, e le spranghe, inspessando, sono fatte una grata, contro di cui gli augellini, usi d’accórrere alla tua diàfana palma brizzolata di pane, picchiettano invano i beccucci. S’affonda intanto la cella — ah, non più cella! carcere — e si trasforma in un sotterraneo. Umido è l’aere, sepolcrale. Tutti l'hanno fuggita, la prigioniera, fuorché le fiale omicide; lo stesso divino suo sposo tornò quell'Orrendo che abita eccelso in silenzio. Se le lasciarono un débole lume, non è tanto a conforto, quanto per non risparmiarle la vista delle pietre tombali effigiate a badesse, rìgide al muro, l'infule in capo, la verga al fianco; e degli ossicini, che spuntano il màcero suolo — pìccoli troppo, per avere del mondo, pure il latte, gustato. E il ventre intumidisce viepiù. Fiochissimamente le bàttono i polsi, bàttono dentro ad armille, ahi non nuziali! e vi si arrugginiscono insieme. ¡O Dio suo, guarda! Ecco un ragno che tesse nella ciòtola vuota; ecco l’ala