Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/48

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36 capo ii

     E mangiava al seren; che, stretto un giorno
     Con forza il labbro a’ denti e morso il fiato,
     In ciel salì; che Diogene vero
     Era; prole di Giove, e can celeste.


Altri affermano che volendo spartire a’ cani un polipo, ne avesse morsicato il tendine di un piede, e morisse. I suoi famigliari per altro, al dire di Antistene nelle Successioni, congetturavano che e’ si fosse ucciso col rattenere il fiato. Poichè trovandosi egli per caso ad abitare nel Cranao, quel ginnasio ch’è rimpetto a Corinto, e venendovi, come per costume, i suoi famigliari, lo sorpresero ravvolto nel palio; nè stimando ch’e’ dormisse, poichè non era nè sonnacchioso, nè pigro, svoltone il mantello, lo trovano spirato; e sospettarono che ciò avesse fatto volendo sottrarsi al resto della vita. In quel frangente, come si racconta, nacque contesa tra’ discepoli per chi dovea seppellirlo, e poco meno che non vennero anche alle mani. Ma sovraggiunti i genitori con alcune persone riputate, il filosofo, secondo ch’e’ vollero, fu sepolto presso la porta che mena all’Istmo; e gli posero una colonna, e sopravi un cane di marmo pario. — Da ultimo anche i concittadini lo onorarono con immagini di bronzo e collo scrivervi sotto così:

     Per tempo invecchia il bronzo ancor; ma tutta
        L’eternitade non potrà tua gloria,
        O Diogene, abbattere giammai.
        Perocchè il damma tu solo a’ mortali
        D’una vita mostrasti a sè bastante,
        E di viver pianissimo il sentiero.