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La giustizia del «beg». 271

— Allah sia ringraziato! Tu avrai giustizia! —

Con un gesto maestoso si volse verso il maggiordomo che stava fermo sulla porta della tenda, dicendogli:

— Recati subito alla casa di Talmà e fa’ venire qui immediamente Abei.

— È inutile, signore, — rispose il maggiordomo. — Odo il galoppo del suo cavallo.

— Hossein, Tabriz e anche tu, brigante, uscite e non entrate se non quando Abei sarà qui.

— Una domanda, padre, — disse Hossein.

— Parla.

— L’ha sposata Abei?

— No: non gliel’ho permesso, perchè io non ho avuto la prova della tua morte.

— Grazie, padre.

— Uscite! —

Si riadagiò sul cuscino di seta, riaccese il narghileh, con una calma più apparente che reale, poi fece scorrere con una feroce voluttà la sua famosa scimitarra di Damasco entro la guaina di marocchino laminato d’oro.

— La giustizia del beg sarà tremenda come un colpo di tuono, — mormorò.

Il galoppo d’un cavallo si udiva in quel momento distintamente.

Un terribile sorriso comparve sulle labbra del fiero beg.

— Eccolo! — mormorò.

Il cavallo si era fermato dinanzi alla vasta tenda ed un giovane, vestito tutto di seta bianca, ricamata in oro, con bottoni di turchese, era entrato, dicendo:

— Buona sera, padre. —

Era Abei.

Giah-Aghà piegò appena il capo e staccando dalle labbra il bocchino, chiese quasi con noncuranza:

— Come sta Talmà?

— Piange sempre, padre, — rispose il giovane, con voce irata. — Pare che non sia capace di dimenticare quel povero Hossein.

— Forse dubiterà che sia morto, — disse il beg, con sottile ironia.

— L’ho veduto io a cadere sotto il piombo dei mescoviti, insieme con Tabriz. Che cosa spera ancora?