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370 le confessioni d’un ottuagenario.

terra, e se non colsi in una mattina i ventiquattro beccanotti del nonno di Leopardo, mi venne fatto sovente di metterne nella bisaccia una dozzina. Cinque ne cedeva al capitano e a monsignore; gli altri li teneva per noi: e lo spiedo girava, ed io era tentato molte volte di mettermi nelle veci del girarrosto; ma poi mi ricordava di essere stato intendente e mi rimetteva in atto di maestà.

I nostri ospiti mi entravano nel cuore ogni giorno più. — Bruto era diventato si può dire mio fratello, e l’Aquilina, non so se mia sorella o figliuola. La poverina mi voleva un bene che nulla più; mi seguiva dovunque, non faceva cosa che non bramasse prima sapere se mi riescirebbe gradita. Vedeva sto per dire cogli occhi miei, udiva colle mie orecchie, pensava colla mia mente. Io per me cercava di retribuirla di tanto affetto coll’esserle utile; le veniva insegnando un poco di francese nelle ore di ozio, e a scrivere correttamente in italiano. Fra maestro e scolara succedevano alle volte le più buffe guerricciole, nelle quali s’intromettevano a scaramucciare col miglior garbo anche la Pisana e Bruto. Avea preso tanto amore a quella ragazza che mi sentiva crescere per lei in capo il bernoccolo della paternità, e nessun pensiero aveva meglio fitto in testa che quello di accasarla bene, di trovarle un buono e bravo giovine che la rendesse felice. Di ciò si discorreva a lungo tra noi quand’ella era occupata nelle cose di famiglia; ma ella non pareva molto disposta a secondare le nostre idee: bellina com’era con quelle sue fattezze un po’ strane, un po’ riottose, eppur buona e savia come un’agnelletta, non le mancavano adoratori. Pure se ne mostrava affatto schiva; e alla fontana o sul piazzale della Madonna stava più volentieri con noi, che collo sciame delle zitelle e dei vagheggini.

La Pisana la incoraggiava a divertirsi, a prendersi spasso; ma poi dispiacente di vedersi ingrognare a questi