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386 le confessioni d’un ottuagenario.

del greco mercante. Rigas il poeta aveva fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa il tradimento dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi. Una seconda congiura si ordiva in Italia a profitto dei Greci, protetta da Napoleone. Sognavano di contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani; e si cantava fra le montagne dei Mainotti:

«Un fucile una sciabola e s’altro manca una fionda, ecco l’armi nostre. Io vidi gli agà prosternati a’ miei piedi; mi chiamavano loro signore e padrone.

Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le pistole.

O Greci, alto le fronti umiliate! prendete il fucile, la sciabola, la fionda. E i nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni.»

Fra le orde selvagge degli Albanesi, e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è un insulto dire: i tuoi son morti nel lor letto! serpeggiava il fuoco dell’entusiasmo. Alì Tebelen trionfava colla crudeltà e colla perfidia, ma gli esuli dell’Ellade inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella non si manifestava ancora, ma era forza verace, forza invincibile d’una nazione che ha meditato da lungo la propria sventura, ha accumulato gli insulti, e aspetta paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partì un’ultima volta per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica dei Fanarioti era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue, coll’avidità del leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva di addentarla. La morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole, che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero stati lo spirito d’ogni sua impresa. Egli m’invitava sempre a trasferirmi colla famiglia a Venezia, ove diceva non