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394 le confessioni d’un ottuagenario.

l’istituto fossero stati ubbidientissimi burattini, nelle mani del Padre Pendola. Ma già anche per costui poco dovea durare la cuccagna; infatti morì anch’esso senza vedere i reverendi Padri stabiliti in Venezia. Buoni e tristi, tutti alla lunga dobbiamo andare. Al padre Pendola non mancarono nè epitaffi, nè satire, nè panegirici, nè libelli. Chi voleva ammazzarlo, e chi seppellirne in acqua il cadavere. Egli avea supplicato, morendo quelli che lo assistevano, di essere dimenticato come un indegno servo del Signore; nè credeva che lo avrebbero ubbidito così appuntino. Dopo una settimana non se ne parlava già più, e di tanta ambizione null’altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame ravvolto in una tonaca, e inchiodato fra quattro assi d’abete. Nemmeno gli avean lustrato la cassa come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti poi credo che la Curia patriarcale fu contenta, di essere liberata dal pericoloso ajuto d’un sì furbo zelatore della gloria di Dio e dei proprii interessi.

Uscivano i vecchi attori, entravano i nuovi, Demetrio Apostulos il primogenito di Spiro aveva vent’anni; Teodoro, il secondo, toccava i diciotto. I miei due stavano fra i dieci ed i dodici. Donato ne aveva tre, fra i sedici ai ventidue, tre robusti giovinotti davvero, che guaj se fossero stati in età al tempo delle ultime leve napoleoniche!... Allora si continuava bensì anno per anno la coscrizione, in onta ai largheggianti proclami della Santa Alleanza; ma facilmente si concedevano gli scambi, e colla pace che si prevedeva lunghissima e profonda, molti infingardi concorrevano volentieri ai ben pasciuti ozii della milizia. La giovine generazione accennava all’antica di ritrarsi; poteva anche accennare superbamente, come poco contenta di noi; non avrebbe avuto il torto. Ma al contrario ci ammirava come ajutatori e testimoni di grandi imprese, di generosi tentativi, di incredibili portenti: pareva ci dicesse;