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412 le confessioni d’un ottuagenario.

tato ad un processo, ma aveva potuto liberarsene, e la stima del paese gliene era anzi accresciuta di molto, per la mirabile fermezza da lui in ogni incontro dimostrata. Il giorno appresso abbandonai con dispiacere quelle incantevoli spiagge di Napoli, che pur m’erano state fatali due volte; non le potei salutare cogli occhi, ma il cuore armonizzò co’ suoi palpiti l’inno mestissimo della partenza. Sapeva di non doverle più rivedere, e se io non moriva per loro, esse restavano come morte per me.

Il mese appresso eravamo a Londra. Era il solo paese ove per allora mi fosse concesso di abitare; ma le condizioni nostre erano tali che là più che altrove ci sforzavano a penose privazioni. Il gran costo del vitto, la carezza delle pigioni, la mia malattia d’occhi che peggiorava sempre, la povertà alla quale ci accostavamo sempre più senza speranza di uscirne per alcun modo; tutto concorreva ad angustiarci pel presente ed a farci temere un futuro ancor più disastroso. La Pisana, poveretta, non era nè più nè meno d’una suora di carità. Lavorava per me notte e giorno e studiava l’inglese proponendosi di dare in seguito lezioni d’italiano e così provvedere al mio mantenimento. Ma intanto si spendeva troppo più che non si guadagnasse e in onta a medici ed a cure io era ridotto cieco affatto. Allora appunto, quando aspettavamo da Venezia un qualche soccorso, ci scrisse l’Aglaura che pochissimo poteva mandarci, perchè Spiro coi due figliuoli ed ogni sua ricchezza avea fatto vela per la Grecia al primo grido di ribellione levato dai Mainotti. Ella stessa avea creduto suo debito d’incuorarli a ciò; soltanto per la cagionevole salute non avea potuto seguirli ed era rimasta a Venezia contenta, nelle sue strettezze e ne’ suoi dolori di pensare, che erano tutti sacrifizi utili e dovuti alla santa causa d’un gran popolo oppresso.

Così io mi compiacqui con lei e col cognato di tanta