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414 le confessioni d’un ottuagenario.

chè ci guadagnasse discretamente in questa industria, la fatica era tanta che non poteva durarvi a lungo. Io mi perdeva le lunghe ore a ringraziarla di quanto la faceva per me, e non credo aver sofferto mai maggior tormento di allora, nell’accettare sacrifizii che costavano tanto per la conservazione d’una vita così inconcludente come la mia. La Pisana rideva delle mie grandi parlate di devozione e di riconoscenza, e attendeva a persuadermi che quanto a me pareva le costasse molto, non le dava infatti che pochissimo fastidio. Ma dal suono della voce, dalla magrezza della mano che qualche volta le stringeva, io m’era ben accorto che i disagii e il lavoro la consumavano. Io invece m’impinguava proprio come un cavallo tenuto sempre in istalla; e questo non era l’ultimo dei miei dispiaceri; temeva di esser creduto poco sensibile a tante prove di eroica amicizia che mi venivano date.

— Amicizia, amicizia! — ci filava molto dietro questa parola, come diciamo noi Veneziani; e mi pareva impossibile che la Pisana fosse capace di stare fra i limiti di questo moderato sentimento. Non so se temessi, o mi lusingassi qualche volta che la memoria, se non altro, del passato ci avesse un gran merito nei sacrifizii d’allora. Ma ella mi scherniva tanto piacevolmente quando cadeva in qualche lontana allusione a ciò, che mi vergognava de’ miei sospetti come nati da troppa mia superbia, o da scarsa fiducia nell’eroismo disinteressato di quella prodigiosa creatura. D’altronde, a dissuadermi da quell’opinione sarebbero bastati i continui e caldi discorsi ch’ella era sempre la prima ad intavolare sull’Aquilina, sui miei figli, e sulla felicità che avrei gustato quandocchesia fra le loro braccia. Pareva che la Pisana d’una volta dovesse essere morta, e seppellita per me. Così passavano i mesi senza differenza per me di giorno e di notte: avea perduto affatto la speranza di racquistare la vista; non mi moveva mai