Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/453

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capitolo ventesimo. 445

mare dell’essere?... Carlo, voi non siete un fanciullo, nè io un ciarlatano; voi non volete esser ingannato, per quanto la presente debolezza vi renda più care le false e fuggitive illusioni che l’inesorabile realtà. In questo mondo si viene quasi colla certezza di veder morire il padre e la madre: solo chi paventa la morte per sè, deve disperarsi dell’altrui; la morte d’un amico fa più male a noi per la compagnia che ci ruba, che non a lui per la vita che gli toglie. Io e voi dobbiamo, mi pare, conoscer la vita, e stimarla adeguatamente al suo giusto valore. Compiangiamo sì la nostra condizione di mortali, ma sopportiamola forti e rassegnati; non siam tanto egoisti da desiderare altrui un prolungamento di noje, di mali, di dolori, per servire alla nostra utilità, per iscongiurare quella sciocca paura che hanno i fanciulli di rimaner soli nelle tenebre. Le tenebre, la solitudine sono il sepolcro; entriamo coraggiosamente nel gran regno delle ombre; vivi o morti, soli dobbiamo restare; dunque non pensiamo ad altro che ad addolcire agli amici il dolore della partenza! Io non sono un medico che crede aver sviscerato tutti i segreti della natura, per aver veduto palpitare qualche nervo sotto il coltello anatomico: v’è qualche cosa in noi che sfugge all’esame del notomista, e che appartiene ad una ragione superiore, perchè colla nostra non siamo in grado di capirla. Confidiamo a quel supremo sentimento di giustizia, che sembra esser l’anima eterna dell’umanità, il destino futuro ed imperscrutabile di quelli che si amano. La scienza, le virtù, i doveri della vita si riassumono in un’unica parola: Pazienza!...

— Pazienza! — io soggiunsi più avvilito che confortato da questi freddi ma inespugnabili ragionamenti. — Pazienza è buona per sè; ma per gli altri?... Avreste voi, Lucilio, la viltà di consigliarmi pazienza pei mali ch’io ho cagionato, per le sventure di cui il rimorso non cesserà