Pagina:Leopardi - Epistolario, Le Monnier, 1934, I.djvu/96

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anno 1817 – lettera 36 63

pescare i difetti di un’opera, singolarmente quando il cattivo è più del buono. Intanto Ella sappia che una copia del mio libro è già tutta carica di correzioni e cangiamenti.1 Vorrei qualche volta essermi apposto e aver levato via quello che a Lei e al Monti dispiace, ma non lo spero. Ella dice da Maestro che il tradurre è utilissimo nella età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace. Il suo giudizio in’inanimisce e mi conforta a proseguire.

Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’Odio della patria, per la quale se Codro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere. Ma mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto Italiano,2 perché alla fine la nostra letteratura, sia

  1. V. lett. 33, p. 58, poscritto e nota 1.
  2. Dissente in questo già notabilmente dai principii o dai convincimenti paterni. Per Monaldo la «patria» era la città nativa, dove sono comuni, oltre il suolo, le mura ecc., una quantità d’interessi e di rapporti. Egli si spinge a riconoscere non esser gran male se anche allo Stato daremo il nome di patria, perché «coi nazionali stranieri [e «stranieri» gli uni agli altri orano e si sentivano pur troppo gl’Italiani nel loro secolare servaggio e frazionamento] non abbiamo comunità d’interessi, d’istituzioni e di leggi». Quindi lamenta che i Principi, togliendo ai singoli Comuni tutti i loro privilegi e diritti, avessero reso i cittadini, stranieri nella loro città; e che con l’abolizione dello spirito municipale avessero fatto insorgere lo spirito nazionale, «il quale ha ingigantito gli orgogli e i progetti dei popoli». Lamenta che i Principi abbian dimenticata la massima del Divide et impera, scolpita sul fondamento dei troni; e li eccita a dividere popolo da popolo, provincia da provincia, città da città, lasciando a ciascuna i suoi statuti, privilegi e diritti; perché solo cosi sarà fugato «il fantasma dello spirito nazionale». Nel suo Discorso agl’Italiani del 1815, Giacomo, facendosi l’eco inconsapevole delle idee paterne, aveva anch’egli sostenuto essere impossibile all’Italia conseguire vera indipendenza; e, anche ottenendola, non poterne avere alcun vantaggio; e aveva esaltato quello spettacolo vago e lusinghiero di piccoli regni e di numerose capitali con corti brillanti: e poiché per ottenere una pace durevole, supremo bene dei popoli, bisognava fiaccare del tutto la prepotenza e l’orgoglio francese, aveva ammessa la nocessità di un’ultima guerra alla Francia. Ma dal ’15 ad ora, qual mutamento s’era prodotto, anche in fatto di politica, nel caldissimo giovane! E ciò senza subire nessun influsso esterno; e quindi neppur quello del Giordani. Verso il ’20, si trovano nello Zibaldone osservazioni di G., sul proposito dell’amor patrio, assai istruttive. E mentre egli fa dipendere in generale l’amor di patria dall’amor proprio, e quindi dall’amor di setta, di fazione, dallo «spirito di corpo che ci porta a procurare i vantaggi di esso corpo»; ne trae che «a molti spiriti ristretti la patria come corpo troppo grande non ha fatto effetto, e perciò si sono scelti altri corpi, come sètte, ordini, città, provincie ecc.»; e che per codesti tali spiriti del tipo di suo padre «non è fatto l’amore della nazione, perché non arrivano a desiderare né a compiacersi di