Pagina:Leopardi - Opere I, Le Monnier, Firenze 1845.djvu/18

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DI GIACOMO LEOPARDI. XI vigliosa, conquistate nelle lingue le chiavi dello scibile ovvero dell’universo, studiò prima l’applicazione che vi fecero del loro ingegno i grandi uomini o antichi o moderni che lo avevano preceduto, e poi vi applicò il suo proprio. Ma a que’due elementi -era congiunto un terzo, la malattia, il dolore, la parte più inesplicabile dell’inesplicabile mistero dell’universo. Laonde, sferzato da un tanto flagello, egli ne domandò la spiegazione prima a quello studio e poi a quell’applicazione, prima agli altri e poi a se stesso; e questa perpetua ed insaziabile interrogazione è il pensiero a un tempo dominante ed occulto de’suoi scritti. In nessun uomo non fu mai traveduto meno oscuramente l’innesto terribile di que’due principii che diedero agli uomini il primo concetto d’Oromazo e d’Arimane; il maggior bene, l’intelletto, commisto col maggior male, il dolore. Egli si valse del primo a manifestare il secondo; e cantò, per così dire, l’inferno colle melodie del paradiso. Lo studio dell’applicazione all’universo dei grandi ingegni passati e del modo ond’ ella seguì e ond’ essi la manifestarono, constituisce la filologia. L’applicazione all’universo del primo elemento del proprio ingegno (cioè della fantasia) e la manifestazione del modo ond’ella segue, constituisce la poesia. L’applicazione all’universo stesso del secondo elemento del proprio ingegno (cioè del raziocinio) e la manifestazione del modo ond’ ella segue, constituisce la filosofia. Dunque il Leopardi fu prima gran filologo, poi gran poeta, poi gran filosofo. E per intendere la vera natura del suo ingegno, è mestieri di studiarlo ordinatamente sotto ciascuna delle tre grandi forme che assunse.