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D’ISABELLA ANDREINI. 116

tilla di quel fuoco immenso, che già per voi m’arse vivesse nel mio seno, o se alcuna di quelle molte ferite, ch’io portai nel cuore si facesse, ancorche debilmente sentire, potrebb’essere, ch’essercitando la vostra solita crudeltà mi stratiaste di nuovo (non voglio dir vi vendicaste, conciosia cosache non v’offesi giamai, che, perche i’ habbia scritto menomissima parte de’ costumi vostri, non reputo d’havervi offeso) ma di quel fuoco non c’è rimasa cenere, non che favilla, e di quelle ferite non ci sono pur i segni delle cicatrici, non che ’l dolore, di che ogni giorno più ne ringratio, e più ne benedico la sorte, poich’io qual Salamandra, o qual Fenice non mi consumo più nelle fiamme, nè qual Bibli, o qual Egeria mi distillo in fonti di lagrime, nè più sospirando passo senza sonno le notti, e senza riposo i giorni. Hora per gelosia non mi lascio cader in grembo di noiosi tormenti, nè per vedervi in mio dispregio far cose tanto memorabili quanto sconcie sento alcuna sorte d’affanno. Sò ben, che se poteste fareste peggio che mai, come colui, che sempre ha stimato più di qual si voglia tesoro, o più di qual si voglia fatto egregio il farmi ingiuria, quasi che per amarvi io meritassi ogni supplitio; e forse mentre v’amai conosceste voi quello, ch’io cieca amante conoscer non poteva, cioè, ch’io meritava, che ’l Mondo tutto, non che voi mi tormentasse per amarvi. Ah veramente sì, ch’era grandissimo errore il mio amore: ma così fatto errore non commetterò io più: e se voi siete armato dell’usata fierezza, e se havete deliberato di travagliarmi più che mai, satiate-


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