Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/259

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canto decimoterzo

Securamente mansueti e il lume
Di sì maschia bellezza iva ammirando
Silenzíoso. Anch’essa dea non senza
60Stupor mirava il gran ribelle, e come
Una mesta pietà prendeale il core
Secretamente. Alfine in questa forma
Prese a parlar:
                      — Superbo e sventurato
Angiolo, nè so dir se in te più sia
65La superbia tenace o la sventura,
E come puoi di tanto umile stato
L’aspetto solo comportar, tu primo,
Già primo, or fatto di pietade obietto,
Fra le schiere del ciel? Misero! e dove
70Son l’ali tue? Dove la schietta luce
Della fronte immortal? Scemo di tutte
Doti del cielo, a un passeggero e reo
Figlio d’Adamo io ben ti assembro, e nulla
D’eterno hai più, fuor che la tua sventura! —
75— E la sventura è la ricchezza mia,
Bella figlia del ciel, così rispose
L’onor di lui che dalla luce ha nome;
Tesoro è il pianto, a cui null’altro agguaglia
Nella terra e nel mar. Povero e gramo
80Cultor l’arido solco apre a fatica,
Ed una al seme ed al sudor gli dona
Le speranze sue belle. Ispido e bianco
Sibila tra l’ignude arbori il verno;
Croscian piogge e gragnuole, e giù ridondano
85In tumulto i torrenti: il poverello
Guarda tremando i duri prati, e al magro
Desco seduto alla sua donna a lato
Pur dolorando il bel tempo predice,
Finchè tutt’oro il crine e in man la falce
90Esce il fervido giugno, i mareggianti



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