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stette al trionfo delle Odi barbare; ma più non udì, ma non ricordò più le note dolci di primavera. E se ancora una dolce ingenua nota levavasi qua e là, quasi eco solitario della gran maggiolata popolare romantica, somigliava essa al canto del vago augelletto, che il Petrarca udì sull’autunno cantare o piangere il bel tempo passato. Levavasi dal panteismo classico instaurato nella natura, una vasta nota di poesia morente; e via pel cielo freddo migravan gli ultimi sogni, bianco stormo di cicogne tardive, sopraggiunte dall’inverno glaciale.

                    “Oggi una pallida
Nube di tedio e terra e ciel coprì,
E ’l carme è voce inutile
E ’l vate un’ombra degli antichi dì.„

Così s’intonava con le nebbie plumbee della maremma la lucreziana monodia, che coperse con le sue note possenti gli ultimi echi delle lire romantiche.

Ma ne’ canti che dettero la nota dell’usignuolo alla primavera d’Italia, ma negli agili e melodiosi gorgheggi della lirica pratiana, il tedio e lo sconforto, la stanchezza pessimista e negatrice non aggreva la voce del poeta giammai. Bensì egli, l’antico fanciullo sempre innamorato de’ suoi fantasmi, canterà nel suo pallido tramonto, accigliato in disparte e solo:

Sul vecchio mondo la faccenda nova
Sorge arrogante e il suo gran dì non spreca
Dietro a’ fantasmi....

Bensì quando vedrà fatta intorno a sè, in un mondo che più nol capiva, la tetra solitudine e l’abbandono, e vedrà tutta la schiera folleggiante delle sue canzoni dileguarsi