Pagina:Luisa Anzoletti - Giovanni Prati, discorso tenuto nel Teatro Sociale la sera dell'11 novembre 1900 per invito della Società d'abbellimento di Trento, Milano 1901.djvu/43

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si amano meglio in prosa schietta; non sono rimasti che de’ versi preziosissimi, e delle rime un po’ lambiccate.

Ma della lirica di Giovanni Prati, no, che non la si è veduta fare la decomposizione. E colui che ne tentasse l’esperimento, tenterebbe ancor oggi d’uccidere una cosa viva. Poichè, nè un cuore che palpita, nè un’anima che arde, nè il pianto, nè l’estasi del vate, no, non è dato, o signori, nè sarà dato mai alla critica di decomporli.

Io non saprei nemmeno se si possa dire assolutamente con qualche altro critico più assennato, che il Prati abbandonava troppo gli uomini per i fantasmi. C’è tanta umanità, sempre, in lui! Vi sentiamo così frequente la consapevolezza d’un cuore che ha amato, e fors’anche sofferto, di un’anima tutta intesa ad accogliere in se le voci fraterne, presente a sentirne il gaudio e lo spasimo, pronta a vibrare ad ogni commozione che agiti i petti umani, ad ogni onda di pensiero e d’affetto, di gioia o di dolore, che sollevi l’anima del popolo!

Finalmente i maestri lo avrebbero voluto più colto. Gli consigliavano di studiare, di rifarsi a’ classici modelli, di addottrinarsi alla grande scuola de’ filosofi. Nè, secondo la loro vista, avean torto. Ma, secondo la natura delle cose, che qualche volta sfugge alla critica, bisognerebbe sapere se il mero poeta lirico possa di fatto mettersi a scuola presso i maestri di filosofia. Ed io vorrei anzi mi si dicesse, se si può affermare che per il mero poeta lirico vi sieno mai stati maestri. Virgilio ha ben potuto cominciare imitando e anche copiando Teocrito, come il Monti cominciò imitando il Varano, e il Manzoni ormeggiandosi sul verso del Monti. Ma Orazio sa che non è concesso batter l’ale un’altra volta per le nubi ove altissimo vola il cigno dirceo;