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glia di Adua, una «tisi militare, non una guerra: piccole scaramuccie nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismi senza successi...»

Ora questo telegramma, che è del 25 febbraio 1896, doveva — secondo noi — essere accolto dal Baratieri con beneficio d’inventario, perchè il Governo, che aveva ripetutamente offerti rinforzi senza essere richiesti dal Baratieri, aveva pur ragione di rimproverargli che non si poteva essere sempre inferiori di numero dinanzi al nemico», e che, quindi, si trattava di vero e proprio «sciupìo di eroismi senza successi».

Tutti coloro i quali vollero e vogliono scagionare il Baratieri per incolpare il Crispi, se si fondano su questo telegramma, ànno torto, perchè la ragione, in questo caso, sta dalla parte di chi, pur essendo lontano, per misura di prudenza, non voleva più oltre scherzare con la dea fortuna, dea quanto mai capricciosa e cieca. Si dica piuttosto che, essendo giunte le cose agli estremi, nessuno singolarmente ebbe torto della sconfitta, ma che questa deve essere attribuita, più che altro, a difetto di maturità e di organizzazione della giovane nazione italiana.

Si disse più sopra che gli Abissini erano oltre centomila; anzi, secondo il Pollera, essi erano circa 120 mila. La battaglia, che Aldo Valori chiama giustamente una serie di combattimenti slegati, fu terribile e sanguinosa. Gli Italiani, dopo essersi battuti da leoni, lasciarono sul campo 4.000 morti con 1.600 Indigeni circa; ebbero inoltre 500 feriti e 1.700 prigionieri. Il rapporto tra i morti ed i feriti dice chiaramente del come si erano battuti gli Italiani in quel giorno infausto ma glorioso. Gli Abissini, da parte loro, ebbero 7.000 morti e più di 10.000 feriti. Diffusasi in un baleno la notizia di tanta immeritata sconfitta, in Italia, anzichè comprimere il dolore, si inscenarono dimostra-