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erano aggruppati intorno all’una e all’altra di esse, venivan creduti amanti felici di altrettante signore presenti. Nessuno l’avrebbe indovinato al loro contegno, salvo forse a qualche rapido sguardo di sospetto geloso, saettato di quando in quando da un capo all’altro della sala. La meno prudente era una nobile signora sui quarant’anni, scollata sino a mezzo il dorso, sfoggiatamente elegante. Ell’era venuta dopo le altre, sola, un momento prima del suo amante, un giovane ufficiale d’artiglieria. Quando l’infelice parlava a qualche signora, colei lo mordeva cogli occhi.

Faceva caldo là dentro, benchè fossero aperte due larghe porte che mettevano in due altre sale illuminate: la sala dei grandi ricevimenti, gialla, grandissima, zeppa di suppellettili e quadri antichi: e la sala da musica, rosso-cupa, dove s’intravvedeva la voluttuosa Bajadera di C..., in marmo di Carrara. Nella sala azzurra v’era un tepore profumato di bellezza viva, segretamente disposta ad amare. Quei vapori salivano al cervello di Silla e, sopravvenendo dopo lunghi mesi di vita solitaria e studiosa, glielo offuscavano, gli dicevano quale fosse la felicità intensa, la vera, la sola, sia pur fugace, che è offerta all’uomo, sia pur da un cattivo genio; essere follemente amato da una di quelle donne altere con lo squisito condimento di tutte le eleganze e della colpa.

— La Mirellina non si vede — disse qualcuno.

Era la terza volta che si ripeteva questo discorso, ma la nobile signora venuta per l’ultima non l’aveva inteso.

— Che orrore, neh, Laura? — le disse la padrona di casa.

— Cara... — rispose donna Laura che badava ad altro. — Giboyer, neh?

— Oh giusto! — rispose Giulia ridendo. — Non parlo mica della commedia.

— Laura non poteva vedere — osservò un’altra signora.