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per un po’ di tempo restava triste, taciturno. Io vedo i suoi pensieri. Povero papà, non può immaginarli Lei i cattivi compagni che ha avuto. Non han potuto guastare il suo cuore, ma gli hanno empita la mente di tante vecchie volgarità misere!

Il sagrestano entrò nell’orto e, salutato il parroco, andò a prendere le chiavi della chiesa. Don Innocenzo tolse commiato da Edith, che rimase seduta sul muricciuolo. Appena fu sola, si sentì spossata da un accoramento profondo. Ell’aveva amato e rinunciato all’amor suo, ma pure solo allora le pareva di aver interamente perduto Silla, solo allora che lo sapeva tornato al Palazzo, presso Marina. Pochi minuti dopo, le campane della chiesa, colorata ancora dall’ultima luce calda del tramonto, suonarono. A Edith pareva che dicessero « Addio, amore, dolce amore; addio, giovinezza soave ». Si alzò e rientrò in casa; ma anche lì penetrava la voce delle campane benchè più languida. « Addio, addio ». Edith salì nella sua stanza. La finestra n’era aperta, e le campane vi ripetevano più forte che mai « Addio ». Fra le cortine bianche, nel ponente, scintillava la stella della sera. Edith non voleva intenerirsi: andò nella camera di suo padre, vi si sentì tranquilla e vi chiuse la finestra senza sapere bene il perchè. Si pose a spazzolar un soprabito, guardò se i bottoni eran saldi; poi lo ripiegò, lo posò sopra una sedia, si fece a comporre i guanciali sul suo letto, a spianare e rincalzar le lenzuola col tenero studio di una mamma che rifà il letticciuolo del suo bambino convalescente. Stette quindi a guardare la stella pura, in pace, stavolta; e udì Marta che chiamava dall’orto:

— Signora! Oh, Signora!

Marta desiderava sapere se la signora Edith sarebbe andata anche lei in chiesa, perchè allora avrebbero potuto uscire insieme e chiudere la porta di casa.

Si confusero alle poche donne che salivano dal pae-

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