Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/230

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228 la novelletta


111.Ciò detto, le ribacia, e le rimanda
colme di gemme e di monili il seno.
Ai cari genitor si raccomanda,
poi le consegna al venticel sereno,
che presto ad esseguir quanto comanda,
rapido più che strale, o che baleno,
con vettura innocente in braccio accolte
le riporta a lo scoglio onde l’ha tolte.

112.Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando, e ’n tali accenti
con l’altra il suo furor sfogava l’una:
«Or guata cieca, ingiusta, e da le genti
forsennata a ragion detta Fortuna!
Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?
e tu tel vedi, e tu tel soffri o Cielo?

113.Figlie d’un ventre istesso al mondo nate
perché denno sortir sorti diverse?
Noi le prime e maggior malfortunate
tra le sciagure e le miserie immerse;
ed or costei, che ’n su l’estrema etate
già stanco in luce il sen materno aperse,
se fu del nostro ben trista pur dianzi,
lieta del nostro mal fia per l’innanzi.

114.Un marito divin chi né godere
né conoscer sel sa, gode a sue voglie.
Vedesti tu per quelle stanze altere
quante gemme, quant’oro, e quali spoglie?
S’egli è pur ver, che con egual piacere
giovane così fresco in braccio accoglie,
e di tanta beltà quant’ella dice,
più non vive di lei donna felice.