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canto quarto 253


211.«Se mi siete» dicea «fidate amiche,
s’è l’amor vostro a l’amor mio conforme,
datemi in man la fuggitiva Psiche,
usate ogni arte a ricercarne l'orme».
L’accorte Dee, già mie seguaci antiche,
in cui sopito il foco mio non dorme,
de l’arrabbiato cor l'ire feroci
s’ingegnan mitigar con queste voci:

212.«E qual gran fallo, o qual peccato grave
il tuo figlio commise, o Dea cortese,
se lo sguardo piacevole e soave
d’una vaga fanciulla il cor gli accese?
Amorosa e divina alma non have
onde sdegnarsi per sì lievi offese.
Fora certo più tosto il tuo devere
amar ciò ch’ama, e ciò che vuol, volere.

213.Sai ben ch’ei non è più tenero in erba:
forz’è ch’al foco pur s’accenda l’ésca!
Se tu rimiri a la sembianza acerba,
o vuoi forse aspettar ch’egli più cresca,
tal ne la guancia sua vaghezza serba,
sempre ignuda di pelo, e sempre fresca,
sì tien con la statura il tempo occulto,
che ti parrà bambin, quantunque adulto.

214.Or tu, che de’ piacer sei dispensiera,
tu, che pur madre sei, che sei prudente,
vorrai ritrosa ognor dunque e severa
spïar gli affari suoi sì sottilmente?
Chi fia che non t’appelli ingiusta e fiera,
se tu, che seminando in fra la gente
a tutte l'ore vai fiamme ne’ cori,
vuoi da la casa tua scacciar gli amori?»