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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/273

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canto quarto 271


283.Deh donde aviene, o Dea pietosa e santa,
che tu meco in tal guisa incrudelisca?
Se pur è ver, che ’n questa che m’ammanta
spoglia mortal, qualche beltà fiorisca,
già non è in me temerità cotanta
che d’emularti o di sprezzarti ardisca.
Dèi tu, che reggi l’amorosa stella,
odiarmi perché ’l Ciel mi fece bella?

284.Perfida io già non fui. Se forse errai,
colpevol son d’involontario errore.
Un scusabil fallir perdona omai,
se pur fallo può dirsi amar Amore:
colui da le cui forze (e tu tel sai)
difendersi non vale ardito core.
Dunque t’adirerai perch’abbia amato
quel che pur del tuo grembo al mondo è nato?

285.L’amo (nol nego) e fia che ’n me si scioglia
prima il nodo vital, che l’amoroso.
E se ben fui pur dianzi al vento foglia,
ond’al cospetto suo tornar non oso,
più già mai perder fede o cangiar voglia
non mi vedrà, siami nemico o sposo,
tanto che ’l Sole a questi occhi dolenti
porti l’ultimo dì de’ miei tormenti.

286.Non cheggio il letto suo, né mi si debbe,
so ben, che di tal grazia indegna sono:
ma in quel bel seno, ond’egli nacque e crebbe,
spero trovar pietà, non che perdono».
Più oltre ancor continovato avrebbe
de le sue note addolorate il suono,
ma la doglia nel cor l’abondò tanto
che diè fine al parlar, principio al pianto.