Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/289

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35.Bello era, e non ancor gli uscía su ’l mento
l’ombra ch’aduggia il fior de’ piú begli anni.
Iva tendendo a roze prede intento
ai cervi erranti insidiosi inganni.
Ed ecco il predator, che ’n un momento
falcate l’unghie, e dilatati i vanni,
in alto il trasse, e per lo ciel sostenne
l’amato incarco in su le tese penne.

36.Mira da lunge stupido e deluso
10 stuol de’ servi il vago augel rapace.
Seguon latrando, e risguardando in suso,
i cani la volante ombra fugace.
11 volo oblia d’alto piacer confuso
Giove, e di gioia e di desir si sface,
gli occhi fiso volgendo, e le parole,
Aquila fortunata, al suo bel Sole.

37.«Eanciul» dicea «che piagni? a che paventi
cangiar col Cielo (ahi semplicetto) i boschi?
con l’auree sfere, e con le stelle ardenti
le tane alpestri, e gli antri ombrosi e foschi?
e con gli Dei benigni ed innocenti
le fere armate sol d’ire e di toschi?
fatto, mercé di lui, che ’l tutto move,
di rozo Cacciator Coppier di Giove?

38.Son Giove istesso. Amor m’ha giunto a tale,
non prestar fede a le mentite piume.
Aquila fatto son; ma che mi vale,
s’Aquila ancor m’abbaglio a tanto lume?
lo quel, quell’io, che col fulmineo strale
tonar sovra i Giganti ho per costume,
sí son pungenti i folgori che scocchi,
saettato son giá da’ tuoi begli occhi.