Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/234

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303.Or chi di noi baldanza ebbe primiero
d’aprir le labra agl’interdetti accenti,
dal deputato Giudice severo
con minacce richiesti, e con spaventi,
possibil non fu mai ritrarne il vero
per terror di martiri, e di tormenti:
ch’appropriando a sé la colpa altrui,
dicea ciascuno a prova: «Io sono, io fui».

304.O nobil gara, or chi mai vide o scrisse
per sí degna cagion si degna lite?
Chi d’amor, non d’onor fu mai ch’udisse
piú belle o piú magnanime mentite?
Dolci contese, e generose risse,
ch’aman le morti, e sprezzano le vite,
ne’ cui contrasti divenir s’è visto
vantaggio il danno, e perdita l’acquisto!

305.Stupisce il Magistrato a tal tenzone,
la crucciosa Reina ambo rampogna,
ma vie piú lei, che ’ntrepida pospone
a la salute mia la sua vergogna.
Ben comprende ch’Amor n’è sol cagione,
e che commune è il fallo e la menzogna.
La patria chiede, e le fortune mie,
ed io compongo allor nòve bugie.

306.Veggendo pur la pertinacia Argene
de la coppia in Amor costante e fida,
ch’ad usurparsi le non proprie pene
gareggia, e ch’ella invan minaccia e grida,
a l’usato costume allor s’attiene,
che ’l ferro alfin la question decida,
ch’un campion quinci e quindi in campo vegna,
e d’otto giorni il termine n’assegna.