Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/236

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311.L’inumano Torrier, che pur sovente
compianse al pianger mio, tentai con preghi.
E qual core è di sasso, o di serpente,
cui supplice amator non mova o pieghi?
L’oro però fu piú eh’Amor possente,
l’oro, a cui giá mai nulla è che si neghi.
Tratto l’avanzo fuor del mio tesoro,
dai ferri alfin mi liberai con l’oro.

312.Con l’oro ebbi il destriero, e d’armi cinto
attendo che sia in Ciel l’Alba risorta,
ch’io non vo’ giá, se per Amor fui vinto,
esser vinto in amore: Amor m’è scorta.
O ch’io sia in una o in altra guisa estinto,
che che n’avegna pur, poco m’importa:
perché soffrir non può morte piú ria
che non morir, chi di morir desia.

313.Non stiam dunque d’andar, ch’agghiaccio ed ardo
tanto ch’a l’alta impresa io m’avicini.
Troppo nóce l’indugio, e s’io ben guardo,
par giá la notte a l’Occidente inchini.
Ecco il Pianeta inferiore e tardo
che tien degli Hemisperi ambo i confini.
Vedrai, se movi a seguitarmi il piede,
prova d’ardire, e paragon di fede. —

314.Cosi parlava il Cavalier dal nero,
e poi ch’ebbe a la lingua il fren raccolto,
dissegli Adon: — Pietosa istoria in vero.
Signor, narrate, e con pietá v’ascolto.
Però fate buon cor, ché, com’io spero,
la gran rota a girar non andrá molto.
Figlie son del dolor le gioie estreme,
e del frutto del riso il pianto è seme.