Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/521

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11.cosí dapoi che ’l caso empio successe
de l’infelice Adon, la Dea di Gnido,
baciando Torme dal bel piede impresse,
trascorse il muto e solitario nido.
Xe la stanza, ch’Amore un tempo elesse
de’ suoi dolci trastulli albergo fido,
guarda il letto diletto: e quivi afflitta
geme, l’abbraccia, e sovra lui si gitta.

12.Sola sovente al bel Giardin sen riede,
visita l’antro ombroso, e ’l poggio aprico,
dove l’erba stampata ancor si vede
de le vestigia del diletto antico.
Parla a le piante sconsolate, e chiede
al sordo bosco il suo fedele amico.
Bagna di pianto i fiori ov’ei s’assise,
e scherzò seco dolcemente, e rise.

13.L’Aurora usci, non giá di lieti albori
ma di lagrime e d’ombre aspersa il volto,
né di vaghi portò purpurei fiori
ma di brune viole il crine avolto.
Seguilla il Sol, ma non spuntò giá fuori,
prigionier fra le nubi, anzi sepolto;
onde bendati di funesto velo
parean vedovo il mondo, e cieco il Cielo.

14.Ed ecco a consolar le doglie amare
che le fan de’ begli occhi umidi i lampi,
vengon Febo dal Ciel, Theti dal mare,
Bacco da’ colli, e Cerere da’ campi,
e con detti soavi, onde giá pare
che di pietá ciascun di lor n’avampi,
si sforzan d’addolcir quell’aspra pena,
che ’l cor le strugge in lagrimosa vena.