Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/562

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175.Ed io, che giá sí grande e sí robusto
non ebbi eguale in paragon di forza,
or che del mio negletto inutil busto
caligine mortai la face ammorza,
mercé di chi v’affisse il remo adusto
e poi fuggí sotto mentita scorza,
mi rimarrò per mio maggior tormento
fischio a la plebe, ed agli augei spavento.

176.Deh quanto fu per me misera l’ora
quando il malnato passaggiero infido
girò la stanca e combattuta prora
a questo mio giá dolce antico nido!
Troppo felice lo mio stato fora,
se d’Etna il monte e di Trinacria il lido,
se queste rive un tempo amene e liete
viste mai non avesse il Greco abete.

177.È ver che quando il traditor m’assalse
per lasciarmi de l’occhio orbato e scemo,
vii omicciuol non osò giá, né valse
mover publico assalto a Polifemo:
ma con lusinghe allettatrici e false
tese l’insidia del mio danno estremo,
e seppe i suoi pensier perversi e rei
si ben dissimular, ch’io gli credei.

178.Quanto vaglia il mio braccio e quanto possa
faranne quest’arena eterna fede,
la qual di sangue per gran tratto e d’ossa
rosseggiar tutta e biancheggiar si vede.
Sallo de l’antro mio la cupa fossa,
che pien d’umane e di ferine prede
ha di teschi e di pelli intorno intorno
il negro muro orribilmente adorno.