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LXVII
Al signor Gaspare Salviani
I ntorno allo stesso argomento, e invia versi.
La maggior disgrazia ch’io abbia sentita in questo mio infortunio è stata la perdita delle scritture, poiché tutte quelle misere
fatiche, ch’io aveva in molti anni accumulate e ch’io teneva giá
in procinto di publicare in breve alle stampe per corrispondere
a quella aspettazione che si potesse aver di me, mi sono state
occupate. Spero ben di ricuperarle senz’altro. Ma perché veggo
che V. S. ha fretta, ed io desidero in ogni modo di servirla, mi
bisogna fare al meglio che posso. Perciò, non avendo meco i
miei originali, dalla ferraggine di certi frammenti e residui poetici
avanzatimi nella memoria, ho cavato un numero di sonetti, i
quali le mando. Ed hovvene framessi alcuni degli antichi, accioché
dopo l’essere andati attorno molto maltrattati compariscano pure
una volta corretti. Son parti d’ingegno torbido e travagliato, ed
io gli gitto via a guisa di quelle merci che nelle tempeste si
sogliono spargere per l’onde. Raccolgali V. S. come tali e scelgane quella parte che sará stimata migliore. Dagli altri sieno
veduti, ma dal mio signor cavalier Guarini sieno riveduti, percioch’egli solo, non eccettuando alcuno, per la viva espression
degli affetti e delle tenerezze e per la puritá e dilicatura dello
stile, pare a me che in questo secolo meriti titolo di vero poeta.
Salutilo V. S. da mia parte caramente e dicali ch’io si come
del continuo adoro col cuore il suo genio, cosí per tutto predico
con la lingua il suo nome. Dello stato mio non mi diffondo in
darle minuto aviso: basti sapere che le false accuse d’amici
traditori avevano machinato il precipizio alle mie fortune, se il
divino aiuto non avesse dato adito alla mia giustificazione ed
all’altrui disinganno. Cosi son fatto ormai bersaglio delle calunnie
e delle persecuzioni. Il che mi dá quasi a persuadere ch’io dadovero vaglia qualche cosa e mi fa pregiare assai piú ch’io non
faceva, sapendo che l’invidia è avversaria della virtú e che per