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CIX

Al signor Guid’ Ubaldo Benamati

Promette il suo appoggio all’amico per farlo impiegare in qualche corte e discorre degli errori delle Rime.

La risoluzione che V. S. pensa fare, cioè d’applicarsi a qualche servitú fuori di cotesta cittá, non mi pare se non lodevole per molti rispetti; ed in tal caso a mio giudicio non crederei eh ’Ella potesse far capo in altro luogo meglio che in Roma, dove la virtú è riconosciuta e la fortuna del continuo fa miracoli. Non posso né voglio per ora proporre a V. S. personaggio particolare degno a cui s’impieghi la sua persona, perché lo stato delle cose di quella corte si suol mutare ogni giorno, ed io son giá nove anni che me ne ritrovo lontano. Queste non son facende da trattar per lettere, ma vi bisogna l’efficacia delle parole vive. Ed io prometto a V. S. ogni sforzo che possa venire dalla debolezza de’ miei uffici, quando vi sarò ed avrò squadro il paese, assicurandola che alla sua qualitá non mancará luogo conveniente con condizioni onorevoli. Sperava d’aver a far questo viaggio infin dall’anno passalo, ma tra per molti accidenti che mi hanno impedito e per le dilazioni della licenza datami da questo serenissimo non mi è stato possibile spedirmi. Se gran cosa non mi disturba, son deliberato verso il mese d’ottobre, piacendo a Dio, indrizzarmi a quella volta, e passando di costá parleremo insieme alla lunga.

Circa il verso notato dal genovese nelle mie rime, ha ben ragione, poiché questo appunto è un de’ luoghi falsificati e scorretti, di tanti e tanti che ve ne sono. L’ignoranza d’un correttore ha non solo stroppiata l’ortografia, guaste le parole, trasportate le righe, rovinati i sentimenti, fatti i versi piú brevi e piú lunghi; ma ha voluto anche por mano ad accommodare molti concetti, a rifare molti versi, i quali a Sua Signoria non pareva che corressero bene. Fra’ quali fu quello il quale, come si può vedere nel mio originale, diceva:

Dal piú profondo al piú sublime polo,