Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/24

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GIAMBATTISTA MARINO

s’avessi il sangue caldo d’un figliuolo, da me sbranato a pezzi, dato a bere a la madre ed al padre in un oreiuolo;

s’avessi fatto come fa quel sere, che col pelo canuto ancor non cessa di farsi sculacciar da un mulatiere;

s’avessi violata un’abbadessa, posto a sacco l’altar, fuoco a le mura, o ucciso un capuccin vestito a messa;

s’avessi adulterata la Scrittura, fattomi beffe del papa e di Dio, e offeso il mondo, il cielo e la natura:

si fatte pene pur credere vogl’io fòran ben degne e certo, ch’io non pecco, molto minori assai del fallo mio.

Son fatto rauco, smilzo, lungo e secco; ho la barba e la chioma circoncisa e rabbuffata si ch’io paio un becco.

Signor, se mi vedeste in cotal guisa star solo solo e col pensier far guerra, vi farei certo piagner da le risa.

Fo un passeggiar, quando l’umor m’afferra, che par ch’abbia facendo d’importanza, e volo sopr’al ciel e giaccio in terra.

M’han assegnato il «cameron» per stanza, dove ogni malandrino, che s’appicca, venir a diportarsi ha per usanza.

La stanza non è commoda né ricca: vi si sta caldo e secco insieme insieme, e si trema in un tempo e si lambicca.

Le mura senza pioggia e senza seme verdeggiali e germoglian insalata per le parti di mezzo e per l’stereme.

È tutta col carbone istoriata: la grotta a punto par de la Sibilla, tanto è vecchia, malconcia e affumicata.