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Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/263

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rimaso del suo primiero autore è si poco che si può dir quasi nulla, né so s’egli stesso cosí travestito il riconoscerebbe per suo. Or avvenga che, per esser le suddette cose (come dissi) da me accresciute e arrichite di molti lumi che per l’addietro non avevano, io possa dire d’aver sopra di esse qualche giusta giurisdizione e d’essermene non senza ragionevole auttoritá insignorito, non voglio con tutto ciò esserne tenuto leggittimo possessore. Siensi tradozioni, per tali si smaltiscano, spendansi per quel che vagliono: non le vendo come mie, né pretendo di esse altra loda che di fatica. Ma che diranno questi tali s’io farò loro toccar chiaramente con mano che que’ medesimi componimenti de’ quali essi mi appellano tradottore sono stati dal mio essemplare tradotti? Adunque tante mie poesie che da’ sopraccennati e da altri bell’ ingegni sono state messe in favella forastiera, e che poi sono parte uscite alla publica stampa e parte vanno in volta a penna, si dovrá dire di qua a qualche anni che non sieno originariamente mie? Le mie rime prima che impresse fussero, e specialmente quelle della detta ultima parte, sono ite un gran tempo attorno per tutte quante le mani, e dopo l’impressione per molte reiterate edizioni hanno avuto tanto di dispaccio, che chiunque ha voluto o tradurne o carpirne qualche parte ha ben potuto scapricciarsi a sua volontá. Or se cosi è, perché questi malignetti, avante che detrarre alla mia fama seminando si fatte menzogne per le stampe, non si sono informati del vero? Ma poniamo anche che vero fusse ch’io per trastullo avessi due o tre sonetti tolti alla Spagna o alla Francia e dati all’Italia: perché con fare alla lor madre questo torto, la quale di simili frutti è altrettanto feconda quanto quell’ altre due provincie ne sono sterili, defraudandomi iniquamente della loda in quella parte che mi si deve, ne tacciono le migliaia fatti di mia propria e assoluta invenzione? Vengo dal tradurre all’ imitare. Né parlo di quella imitazione la qual dice Aristotele esser propria del poeta — quella che si confá con la natura e da cui nasce il verisimile e per consequenza il dilettevole, — ma di quella che c’insegna a seguir le vestigia de’ maestri piú celebri che prima di noi hanno scritto. Tutti gli

G. B. Marino, C. Achillini e G. Preti, Lettere - i.

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