Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/265

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Onde il nascimento di Clorinda ci fa subito ricordare del nascimento di Cariclia in Eliodoro; lo sdegno di Rinaldo, dell’ira d’Achille in Omero; l’inferno e ’l consiglio de’ demòni, dell’uno e dell’altro in Claudiano e nel Trissino; la battaglia tra i diavoli e gli angioli nella espugnazione di Gierusalemme, del contrasto degl’iddii presso l’ istesso Omero nella distruzione di Troia; la sete del campo, della sete in Lucano; Tancredi ch’uccide Clorinda, di Cefalo che saetta Procri; la Furia che stimula Solimano, della Furia ch’irrita Turno; Rinaldo quando parte da Armida, d’Enea quando lascia Didonc; Armida che fugge nella rotta dell’essercito egizio seguita e abbracciata da Rinaldo, di Abra sconfitta e appunto nel medesimo modo disperata per Lisvarte. Nell’ una e nell’altra foggia mi sono ingegnato anch’io d’osservar l’imitazione. Per quel che tocca agli universali, s’io abbia bene o male imitato, ancora non si può giudicare dal mondo, poiché ancora alcuni miei poemi narrativi non sono esposti al giudicio suo. Per quel che concerne i particolari, non nego d’avere imitato alle volte, anzi sempre in quello istesso modo, se non erro, che hanno fatto i migliori antichi e i piú famosi moderni, dando nuova forma alle cose vecchie o vestendo di vecchia maniera le cose nuove. E s’io questa sorte d’ imitazione mi abbia male o bene asseguita, me ne riporto al parere di chi piú di me sa, purché legga con occhio puro e con animo spassionato quant’io ho scritto. Ora discendo al terzo ed ultimo capo di rubare, se ben di questo e della differenza ch’ è tra il furto e l’ imitazione e della regola da tenersi nell’uno e nell’altra parmi esserne stato a bastanza discorso nel sopradetto preambulo della Lira. E qui che posso o che debbo io dire? Dirò con ogni ingenuitá non esser punto da dubitare ch’io similmente rubato non abbia piú di qualsivoglia altro poeta. Sappia tutto il mondo che infin dal primo di ch’io incominciai a studiar lettere, imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch’io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo, ché insomma questo è il frutto che si cava dalla lezione de’ libri. Cosi fanno tutti i valenti uomini che scrivono; e